Una famiglia Padovana
di fotografi
Menotti Danesin
(1894-1976)
L’attività fotografica di Menotti Danesin negli anni ’30-‘40
Nello studio di Via San Clemente Menotti rimase fino alla fine della sua attività nel 1970 (fine anticipata e forzata da incomprensioni con il proprietario dello stabile). All’inizio lavorò moltissimo per Ilario Montesi e per le campagne saccarifere della zona, per la Fiera Campionaria. Frequentò la contessa Buzzaccarini, scultrice, la baronessa Treves de Bonfigli. Collaborò con la De Agostini ed altri editori. Documentò le opere d’arte presenti nelle chiese, nei musei di Padova e del Veneto. All’epoca erano quasi tutte sue le documentazioni fotografiche della Basilica di S. Antonio e di Santa Giustina, immagini che poi sono state inserite in cataloghi e libri che andarono capillarmente sia in Italia e all’estero. Tante e importanti anche le riproduzioni dei dipinti, degli affreschi, dei bassorilievi ripresi all’Università, le raffigurazioni di Campigli al Liviano, i monumenti al Palazzo della Ragione. A tale proposito scrive Gustavo Millozzi in “Padova e il suo territorio” (n 8, 1987):“Buona parte della storia antica di Padova è stata fermata nelle lastre di questo fotografo d’altri tempi, la cui perizia era paragonabile solo al suo scrupolo e alla sua modestia. (...) Con la sua macchina fotografica a soffietto, cavalletto di legno, drappo nero e il tappo dell’obbiettivo quale otturatore a mano, riprodusse quadri ed edifici, costruendo negli anni un archivio di migliaia e migliaia di negativi su lastra. (...) Importanza riveste anche il lavoro che Danesin svolse per conto di architetti e progettisti, perché permette di documentare le modifiche che Padova ha subito con il passare degli anni. Così è accaduto che importanti situazioni edilizie preesistenti abbiano lasciato nelle sue foto l’unica testimonianza storico architettonica e ambientale dell’evoluzione della nostra città”.

Lo scultore Amleto Sartori nel suo studio all'Istituto d'Arte “Pietro Selvatico”, Padova 1953.
Con gli anni divenne ricercato perché aveva fama di fotografo degli artisti. Salivano la buia e angusta scala dai gradini sconnessi, per arrivare al suo studio dagli arredi un po’ retrò, i maggiori pittori e scultori veneti, e non solo. In un articolo apparso su Il Gazzettino di Padova del 6 settembre 1966 dal titolo “Ha illustrato la storia artistica degli ultimi cinquant’anni padovani. A questo grande maestro delle fotografia ricorrono enti, istituti, accademie di ogni parte d’Europa” si dice anche: “Il suo gabinetto fotografico, in quaranta anni non ha subito alcuna modifica, è rimasto quello che è: si sale una stretta scala, si entra in un angusto corridoio, ci si affaccia in una saletta le cui pareti sono tappezzate di fotografie più che ventennali e dalla quale si accede ad allo stanzino dove è conservato un archivio inestimabile comprendente 55 mila negative in un’altra stanza, quella riservata alle “operazioni fotografiche” troneggia un vecchio “macchinone” che non sgarra un colpo e per la quale Menotti Danesin rifiuta l’apporto delle macchine moderne, quelle che assicurano una precisione millimetrica.(...)” Gli artisti, i committenti, apprezzavano la capacità di questo fotografo che con la sua grande e artigianale macchina di legno e con il suo sguardo sornione tacitava le loro infinite raccomandazioni ed – era certo – non li deludeva mai. “Anche se era un uomo da non lasciarsi influenzare: se io gli dicevo: “fà cussì, lui mi rispondeva “lasseme far a mi”. E faceva lui. E che facesse bene potrebbe essere a dirlo tutti i tanti cari e illustri amici che egli ebbe da per tutto, se ne fosse bisogno” Cosi Giulio Brunetta ebbe a scrivere di lui. Per arrivare a tanto passava ore e ore in camera oscura e, chi l’ha potuto vedere all’opera, lo racconta ancora facendoci intuire il fascino alchemico che riusciva a creare. Al buio della piccola camera oscura con il piano della lastra da stampare su cui spostava cartine, veline di qua e di là, ne aggiungeva, ne toglieva, ne sovrapponeva ... poi contando i secondi a voce, dava l’avvio alla luce, all’impressione. Solo dopo, quando si vedevano le immagini uscire pian piano dalla trasparenza dell’acido, dopo che, ancora immerse, le aveva sfiorate accarezzate “massaggiate” con le dita ormai scure e macchiate dagli acidi, si aveva anche la meraviglia di vederlo finalmente sorridere leggermente.
[Nota tecnica di ripresa: Composta l’inquadratura sul vetro smerigliato (non essendoci il reflex l’immagine risultava capovolta e la destra diventava sinistra) – Messa o a fuoco, calcolata l’esposizione della luce – veniva sostituito il vetro smerigliato con lo sciassì contenente la lastra fotosensibilizzata. Si toglieva il volè che proteggeva la lastra e poi tolto il tappo dall’obiettivo oppure attraverso un comando, per i secondi calcolati necessari alla impressione della lastra. Veniva poi rimesso il tappo, rimesso il volè e riestratto il scissì. Questo portato in camera oscura. Si toglieva il volé e, al buio completo, e sviluppato. La stampa su carta veniva quasi sempre per contatto. (Francesco Danesin)].

Da sx. Gianni Bonfanti,
lo scultore Amleto Sartori
e Ugo Mazzega, 1951.

La statua del Boxer tedesco
di Amleto Sartori.
Nascevano nuovamente in questa restituzione sulla carta le tante sfumature dei neri, la resa cromatica dei grigi, le tonalità, le ombre e gli spessori reali dove il pittore, lo scultore poteva ritrovare intatta la sua opera. Allora esisteva solo il bianco e nero, il seppiato e la maestria era appunto qui, nel tradurre fedelmente i colori in sfumature di grigio o seppia e dare così l’idea dei colori originali. Erano foto che poi andavano in cataloghi e che avrebbero girato il mondo. La condivisione creativa rendeva naturale l’amicizia fra il fotografo e gli artisti. Veniva così semplice e normale conversare, discorrere per ore d’arte e di correnti artistiche in quel suo studio in penombra, quasi monastico d’estate, appena entrati nell’atrio oscuro e fatti i primi gradini che portavano da lui, sembrava lasciarsi alle spalle tutto il caldo, il vocìo, i rumori delle piazze fra un leggero odore di umidità, di carta e di acidi, in quel suo studio si entrava come in una bolla protetta. Tante erano a volte le “visite” che riceveva che per terminare i lavori commissionati, per finire le stampe con la giusta concentrazione, spesso ritornava nello studio dopo cena e vi restava fino a notte fonda.
"Con l’occupazione tedesca, Luigi, assieme agli amici Mario Zuanassi - noto antifascista e a Menotti Danesin - fotografo ufficiale della Biennale d’Arte Triveneta, contribuìrono a salvare ebrei e partigiani facendo le copie dei timbri per la realizzazione di nuovi documenti." ("Luigi e Antonietta Strazzabosco, La coscienza di una famiglia" Padovanet - Rete civica del Comune di Padova, 2012.

Menotti Danesin
e lo scultore Amleto Sartori, 1951.

l pittore Fulvio Pendini,
Menotti Danesin e Lovisetto,
1961 Bar Verdi.
