SOGLIE
Biblos 2002
Fotografia
di Luccia Danesin
Luccia Danesin
o la fotografia come narrazione degli affetti
Introduzione di Enrico Gusella
“Andavo a trovare i miei cari, a portare un fiore sulle loro tombe, a raccogliermi un momento per salutarli, ritrovarli dentro di me. Erano giornate nebbiose dell’autunno padovano, o giornate di sole splendente di primavera. Ed ecco l’”incontro”: “vidi” per la prima volta – anche se conoscevo da lungo tempo quei gruppi marmorei – visi scolpiti, statue di marmo che ornavano cappelle di famiglia e che solo allora mi si rivelavano nella loro intensità”.
Narra così Luccia Danesin il proprio incontro con i propri cari, storie di lunga memoria, di qualcosa che non può cadere nell’oblio, perché proprio dell’uomo e della gioia di vivere che lo caratterizzano ed è tale da imprimergli la forza e la razionalità volte ad affrontare uno degli aspetti più complessi e drammatici dell’esistenza: il rapporto con la morte.
Un rapporto che Luccia Danesin ha vissuto, percepito e immortalato con lo sguardo rivolto a quei segni, a quei frammenti ed oggetti che racchiudono e rappresentano l’idea e le forme su cui la sua attenzione si è focalizzata: i monumenti funerari.
Il luogo deputato è il Camposanto di Padova, spazio di indagine e di una ricerca nella quale si è “posato” l’occhio, il sentimento e la nostalgia della fotografa padovana. Già nel passato le società facevano in modo che il ricordo, sostituto della vita, fosse eterno e che almeno la cosa che esprimeva la Morte fosse essa stessa immortale attraverso il Monumento(1) ma, con l’avvento della fotografia il Monumento si è in parte sostituito al ruolo di testimone naturale di ‘ciò che è stato’.
La scultura e i monumenti funerari, soprattutto nel corso del Duecento assunsero un ruolo di primo piano nel panorama delle arti plastiche e figurative. Gli esempi in questa direzione sono molteplici: da Giovanni Pisano a Tino da Camaino ad Arnolfo di Cambio, e testimoniano come per la committenza del tempo il monumento funerario rappresentasse non solo un oggetto di culto di primaria importanza ma, anche, un segno di grande riconoscenza.
La sapiente composizione di elementi plastici e architettonici, era una delle caratteristiche più note dei primi monumenti funerari, soprattutto per quanto riguarda la produzione artistica di Arnolfo di Cambio come testimoniano i monumenti al Cardinal Annibaldi, ad Adriano V nella Chiesa di San Francesco a Viterbo, o del cardinale De Braye nella Chiesa di San Domenico ad Orvieto. Ma anche l’opera di Tino da Camaino artista senese formatosi alla scuola di Giovanni Pisano, o di altri celebri artisti del Quattrocento come Bernardo e Antonio Rossellino sono sicuramente esemplificativi di una cultura figurativa che sul tema del monumento funerario ha espresso, anche nel corso del Novecento, alti livelli di tecnica e progettualità artistica, come nel caso di Leonardo Bistolfi.
Proprio in questo senso, allora, l’opera di Luccia Danesin risulta essere di particolare interesse, in quanto l’aver coniugato la scultura funeraria con la fotografia o, meglio ancora, l’aver fotografato i monumenti funerari è, in qualche modo, segno e indice non solo del luogo e del ricordo ma, soprattutto, della rappresentazione del rapporto con la morte che accompagna la vita di ogni individuo.
La fotografia, del resto, come hanno ben fatto emergere Susan Sontag e Roland Barthes, ha legami profondi e con la nostalgia e con la morte. La fotografia come arte elegiaca, crespucolare, ma soprattutto come pratica significa partecipare della mortalità, della vulnerabilità e della mutabilità di un’altra persona o di un’altra cosa. E’ così che isolando un determinato momento e congelandolo, le fotografie attestano l’inesorabile azione dissolvente del tempo. Come ricorda Roland Barthes, “…bisogna pure che in una società, la Morte abbia una sua collocazione; se essa non è più (o è meno) nella sfera della religione, allora dev’essere altrove: forse nell’immagine che produce la Morte volendo conservare la vita. Contemporanea della regressione dei riti, la Fotografia potrebbe forse corrispondere all’irruzione, nella nostra società moderna, di una Morte asimbolica, al di fuori della religione, al di fuori del rituale: una specie di repentino tuffo nella Morte letterale. La Vita/la Morte: il paradigma si riduce a un semplice scatto: quello che separa la posa iniziale dal rettangolo di carta finale”. (2)
E se la fotografia, da un lato, può essere una testimonianza sicura, ma effimera, dall’altro, invece, prepara la nostra specie a un’impotenza: il non poter più concepire, affettivamente o simbolicamente, la durata. Non è casuale, del resto, che dalla stessa visione di una foto che ingiallisce o scolorisce, scaturisca nell’individuo la necessità di ri-collegarsi alla vita e, soprattutto, all’amore. Sì, è l’amore per i propri cari, il loro ricordo, che spinge Luccia Danesin a tornare nel luogo della rimembranza e delle nostalgie di tarkovskijana memoria, per trovare ancora un momento, ancora l’istante per raccontare nel tempo, le storie e la storia, l’affetto e la passione, l’appartenenza e la comprensione. E comprendere le linee plastico-figurative di cui le fotografie rappresentano l’altra concreta interpretazione esistenziale, significa risalire alle fonti dell’esperienza quale forma entro cui ricostruire, per frammenti, il senso primo di un legame, il significato prossimo alla partecipazione, a un’assenza che diventa presenza, o la necessità dell’individuo a ricreare i momenti del proprio tempo, la dimensione spazio-temporale che lo ha accompagnato per l’intera sua esistenza.
IL LIBRO
SOGLIE
Di Luccia Danesin
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INCONTRI
SOGLIE
30 Agosto 2002
Oratorio San Rocco - Padova
Conversazione incontro con Gabriella Imperatori e Anna Maria Zanetti
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RECENSIONI
Virginia Baradel
Camilla Bertoni
Maurizia Rossella
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